La quarta domenica di Pasqua ci presenta ogni anno un brano del capitolo 10 del Vangelo secondo Giovanni che parla di Gesù buon pastore. Solo Gesù è il buon pastore, ma le sue parole ci portano anche a riflettere sui pastori della chiesa, su coloro che mettono a disposizione la loro vita perché tramite il loro servizio l’unico pastore possa prendersi cura delle sue pecore. È chiaro che questa non è la sola mediazione a disposizione del Signore, anzi: Dio è sovranamente libero nella sua azione e può donare la sua grazia come vuole, ma fin dall’inizio della chiesa alcune persone hanno ricevuto incarichi specifici da adempiere con amore e impegno.
Parliamo quindi dei pastori.
Un tempo se ne parlava, almeno in certe occasioni, come se appartenessero a una condizione superiore a quella degli altri esseri umani, elevati a una dignità straordinaria legata al potere sacro della celebrazione dei sacramenti. Ora, è vero che in questa vocazione c’è un dono divino, ma in quel modo di considerarla si annidava la tentazione deleteria del clericalismo. I terribili scandali emersi dalla fine del secolo scorso fino a oggi hanno inferto un colpo durissimo alla stima di cui godevano i preti. È chiaro che i delinquenti sono una minoranza, ma è risultato altrettanto chiaro che non sono stati isolati e puniti come dovevano: per questo è venuta meno quella fiducia incondizionata che i fedeli nutrivano nei confronti dei propri pastori. Questo non significa che ci sia del sospetto nei confronti di tutti i sacerdoti, ma semplicemente che anche loro la fiducia se la devono guadagnare con il loro comportamento, come ogni altra persona.
Il problema è che questi uomini, non superuomini, oggi sono sempre meno numerosi, sempre più anziani, sempre più oberati da doveri e attese che non riescono ad adempiere fino in fondo e che spesso li fanno sentire inadeguati. Anche i mezzi di comunicazione ormai se ne sono accorti: il 31 marzo scorso il Corriere del Veneto ha pubblicato un’intera pagina intitolata “Sacerdoti sull’orlo di una crisi di nervi”. Sottotitolo: “Sono sempre meno e spesso devono dividersi tra più parrocchie.
Ai compiti spirituali si sommano quelli amministrativi. Così i preti vanno in burnout e dicono basta”. Purtroppo è vero: sono sempre più numerosi i preti che non ce la fanno e abbandonano il ministero o almeno chiedono un periodo “sabbatico” per fermarsi e rimettersi un po’ in sesto; nessuno sa poi quanti siano quelli che senza dire nulla hanno rinunciato a ogni slancio apostolico e tirano a campare oppure quelli che si inventano una forma di ministero che risponde più alle loro inclinazioni e interessi che ai bisogni del popolo di Dio.
Il lupo di cui parla il Vangelo di oggi non è più, come nel secondo e terzo secolo, la persecuzione esterna, ma una minaccia all’integrità della vita che viene dall’interno, dal ministero stesso o più esattamente dalle condizioni che si sono venute a creare per tanti motivi diversi ma convergenti.
La tentazione però era, è e sarà sempre la stessa: fuggire, salvare la propria vita, pensare al proprio tornaconto come il “mercenario” ovvero il salariato al quale non importa delle pecore, delle persone che gli sono state affidate.
Di fronte a questa situazione, nuova nelle condizioni esteriori ma antica riguardo alla sostanza, ogni pastore è chiamato a dare la propria risposta che alla fin fine mette in gioco la fede. È chiaro che ai problemi concreti bisognerà trovare delle risposte concrete, solo che al momento nessuno sa quali siano; nel frattempo c’è da vivere tutta la difficoltà della transizione verso una diversa presenza di chiesa nel territorio e una diversa forma di ministero presbiterale, ancora ignote, e questo chiama in causa la fede di ogni pastore: «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà» (Lc 9,24; cf. Mt 16,25 e Mc 8,35).
Non ci sono ricette al riguardo, ma il Vangelo di oggi suggerisce una traccia: il rapporto personale tra il pastore e le pecore. Anche in questo tempo nel quale tante persone si rivolgono ai sacerdoti solo per ricevere alcuni “servizi religiosi” di passaggio, evitando di coinvolgersi in una relazione personale e duratura, anche se il peso specifico della burocrazia nel ministero è enormemente aumentato, ciò che resta decisivo nel presente e dovrà rimanere tale nel futuro è il rapporto, il coinvolgimento personale tra il sacerdote e i fedeli, i “suoi” fedeli. Certo, appartengono solo a Dio e devono essere serviti, non posseduti, ma sono i loro volti, le loro vite e la loro amicizia a dare senso a una vita spesa al loro servizio.
Meditazione 4^ domenica di Pasqua 21/04/2024
da
Tag: