Poco prima di preparare questa omelia, giovedì mattina ho letto in un quotidiano che il giorno precedente è stato presentato a Rio de Janeiro nell’ambito del G20 il rapporto annuale sullo Stato della sicurezza alimentare e della nutrizione, elaborato da cinque agenzie Onu: Unicef, Pam Fao, Ifad, e Oms. Per il terzo anno consecutivo ci sono nel mondo tra 713 e 757 milioni di persone che vivono nell’insicurezza alimentare grave: in pratica, una persona su undici non ha da mangiare. In Africa, una su cinque. Ma salgono a 2,33 miliardi (quasi un essere umano su tre) se si considera anche la difficoltà moderata di accesso al cibo. Le cause sono i conflitti che in questo momento dilagano, le crisi economiche, la speculazione finanziaria sui prezzi degli alimenti e, soprattutto, nel corso del 2023, il riscaldamento globale. L’obiettivo dell’ONU di far sparire la fame dal pianeta entro il 2030 non si sta avvicinando. Mi fermo qui, perché non ho le competenze per capire i problemi planetari, né tantomeno per indicarne le soluzioni.
Il motivo per cui ho citato questa notizia è proprio il brano evangelico di questa domenica: la moltiplicazione dei pani. Alla fame di cinquemila persone Gesù ha provveduto, ma non ha fatto apparire il pane dal nulla e non ha voluto trasformare le pietre in pane; non ha mandato i discepoli a comprare il pane perché non avevano soldi e non ha neppure fatto piovere la manna dal cielo, ma ha chiesto di condividere quel poco, quel pochissimo, quel quasi niente, che c’era.
L’attenzione di quei cinquemila uomini – e spesso anche la nostra – si è concentrata sul miracolo, sul fatto che alla fine è avanzato più pane di quanto ce ne fosse all’inizio, pur avendo mangiato tutti a sazietà. Infatti volevano prendere Gesù – letteralmente: rapirlo, impossessarsi di lui – per farlo re, per avere un capo capace di risolvere magicamente tutti i loro problemi. Ma il Vangelo di Giovanni i miracoli li chiama “segni”, non miracoli o prodigi. Segni perché rimandano ad altro da sé che dev’essere compreso. In questo caso il segno ci dice che il Padre ha cura di noi e ci nutre, ma il pane dev’essere condiviso, altrimenti qualcuno lo sprecherà e qualcun altro avrà fame.
Anche nel Padre Nostro, Gesù ci ha insegnato a chiedere “il nostro pane quotidiano”, non “il mio”, perché poi dobbiamo condividerlo. Se ci rifiutiamo di farlo, se prevale l’egoismo tanto a livello personale che internazionale, se ognuno pensa solo al proprio interesse, è ipocrita chiedere a Dio che ponga rimedio lui a quei peccati dai quali non ci vogliamo convertire noi.
Inoltre, in questo segno c’è almeno un altro particolare che vorrei sottolineare: all’inizio Gesù si siede e più tardi anche la gente si siede per mangiare, ma l’evangelista non usa lo stesso verbo.
Gesù dice ai discepoli: “Fateli adagiare” o “sdraiare”, perché nei banchetti dell’antichità non si stava seduti, ma sdraiati su un fianco. Dunque, quello che è stato offerto quel giorno, pur nella povertà e semplicità dei cibi che furono condivisi, era un banchetto, o meglio il segno di quel banchetto di cui tante volte Gesù ha parlato. Questa gente che aveva corso intorno al lago portando con sé i propri malati e tanti altri problemi, questi che assomigliavano a pecore senza pastore perché erano stanchi e sfiniti, ora sono gli invitati al banchetto del regno di Dio.
Scopriremo poi, nella continuazione del brano, che il vero cibo del banchetto che Dio prepara non sono i pani d’orzo e i pesci, ma un alimento che nutre tutta la vita, non soltanto per un giorno.
Senza il pane quotidiano si muore, ma quel pane che si compra e si vende per denaro non basta per vivere una vita veramente umana, non basta per creare la condivisione e la fraternità. Alle nozze di Cana si chiedevano “da dove” venisse quel vino buono; la samaritana chiedeva “da dove” avesse Gesù quell’acqua viva; ora Gesù chiede agli apostoli “da dove” si può trovare il pane per saziare quelle persone: è una domanda che è rivolta anche a noi.
Meditazione 17^ domenica del tempo ordinario 28/07/2024
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