Il brano di questa domenica è una raccolta di detti di Gesù probabilmente pronunciati in occasioni diverse, ma raccolti dall’evangelista secondo una sua logica che alcuni hanno saputo cogliere. A un livello più superficiale, il legame più evidente tra le varie frasi è l’idea di “impedimento”, perché anche la parola ‘scandalo’ significa proprio “impedimento”.
Giovanni, come portavoce del gruppo dei discepoli, dice che hanno cercato di impedire a un tale di scacciare i demoni nel nome di Gesù. Hanno cercato di impedirgli di fare del bene perché – alla lettera – “non segue noi”. L’appartenenza al gruppo, il “noi”, l’identità, è diventata per loro la cosa più importante, al punto da impedire a qualcuno di fare il bene. Questa mentalità può arrivare a dare così tanta importanza all’appartenenza, da mettere da parte la coerenza: si può arrivare a sbandierare la propria appartenenza al cristianesimo o a una Chiesa anche se poi la propria vita contraddice apertamente il Vangelo. Ovviamente questo crea scandalo, che letteralmente significa “inciampo”, impedimento: chi vede questa incoerenza, chi constata questa ipocrisia può essere tentato di rifiutare la fede. Gesù è durissimo con chi crea scandalo e impedisce la fede degli altri: quale sarà la sorte finale di quell’uomo se per lui sarebbe meglio essere gettato in mare con una macina di mulino al collo?
Il Concilio Vaticano I, nel 1870, condannò l’ateismo nella costituzione dogmatica Dei Filius; anche il Concilio Vaticano II lo condannò, ma riconobbe che la colpa poteva anche essere dei credenti: «Senza dubbio coloro che volontariamente cercano di tenere lontano Dio dal proprio cuore e di evitare i problemi religiosi, non seguendo l’imperativo della loro coscienza, non sono esenti da colpa; tuttavia in questo campo anche i credenti spesso hanno una certa responsabilità. […] nella genesi dell’ateismo possono contribuire non poco i credenti, nella misura in cui, per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione ingannevole della dottrina, o anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e della religione» (Gaudium et Spes 19).
Infatti, nel nostro brano evangelico, le parole di Gesù a questo punto non si rivolgono più alla comunità, ma al singolo, sottolineando la necessità della coerenza, costi quel che costi. È chiaro che non si tratta di amputarsi letteralmente una mano o un piede o di cavarsi un occhio, ma di avere il coraggio di togliere di mezzo tutto quel che ci è di impedimento nel vivere il Vangelo, anche se si trattasse di qualcosa di molto difficile.
Qui ci vuole discernimento: a volte certe rinunce precipitose o esagerate hanno creato frustrazioni e rigidezze di carattere invece di aiutare a diventare misericordiosi. Tuttavia, la vita cristiana non è sempre un progresso gioioso e uno sviluppo armonioso: a volte ci sono delle rinunce da fare, dei “tagli” costosi da dare per essere fedeli al Vangelo, e quelli più costosi di tutti sono quelli che la vita ci impone, non quelli che scegliamo noi. Quando noi scegliamo di rinunciare a qualcosa, possiamo anche inorgoglirci, ma se invece è la vita a toglierci qualcosa spesso restiamo umiliati, e se accettiamo l’umiliazione diventiamo un po’ più umili.
Questo comando di Gesù oggi è particolarmente impopolare: siamo tutti molto consapevoli non solo dei nostri diritti, ma anche molto indulgenti nei confronti dei nostri bisogni. Pensiamo di avere diritto alla felicità e che la felicità consista nella soddisfazione di tutti i nostri bisogni e nella realizzazione di tutti i nostri desideri.
Non è così. La via della vita è stretta e non ci sta tutto: a volte richiede diminuzioni o addirittura amputazioni dolorose. Si chiamano appunto de-cisioni, parola che etimologicamente significa “tagli”. Ci aiuti il Signore a capire quali sono i tagli, le potature, le decisioni giuste che ci conducono alla pienezza della vita e della comunione con Lui.
Meditazione 26^ domenica del tempo ordinario 29/09/2024
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