Meditazione 29^ domenica del tempo ordinario 20/10/2024

Nel brano evangelico di oggi Gesù fa notare ai suoi discepoli che «coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono». Poi aggiunge: «Tra voi non è così». Non dice «non sia» e nemmeno «non sarà»: evidentemente aveva fatto in modo che nel gruppo dei suoi seguaci non ci fossero privilegi né rapporti di potere, ma non ha potuto evitare che queste cose accadessero nel futuro.
Questa è la terza predizione della passione nel Vangelo secondo Marco e ogni volta alle parole di Gesù segue l’incomprensione dei discepoli che invece desiderano potere e onori. L’evangelista ci vuole dire in questo modo che abbandonare la mentalità mondana, convertirsi, non è facile: non è stato facile allora e non è facile oggi, anche se esistono persone che dedicano tutta la loro vita al servizio, umilmente, senza chiedere in cambio riconoscimenti né potere. Queste persone sono una benedizione, un dono di Dio: sono vere discepole e veri discepoli di Gesù, perché essere cristiani significa unirsi a Cristo che dona tutto se stesso a servizio dell’umanità: è cristiano chi fa della propria vita un servizio umile e gratuito, a imitazione di Gesù e in unione con lui.
Gesù infatti chiede a Giacomo e Giovanni: «Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Con queste parole sta alludendo alla sua passione, ma per farlo usa i simboli dei due sacramenti più importanti: eucaristia e battesimo. Vorrei esplicitare almeno una parte del loro significato.
Il battesimo significa “immersione”: essere immersi sott’acqua e poi tornare fuori (anticamente si faceva così). È un simbolo che allude alla sepoltura e quindi alla morte e risurrezione di Gesù.
Come Cristo è morto e risorto, così anche il cristiano accetta di rinunciare alla propria vita, nel senso di “sua proprietà”. È come se, ricevendo il battesimo, dicesse: «Questa vita non è più mia, non mi appartiene più. D’ora in poi appartiene a Dio e ai miei fratelli e sorelle: sarà tutta dedicata al loro servizio. Muoio alla vita vecchia e rinasco a una vita nuova “nella lode di Dio e nel servizio dei fratelli”, come dice una preghiera eucaristica».
Anche l’eucaristia, infatti, contiene in sé questo significato: nel Getsemani Gesù ha pregato il Padre di allontanare da sé il “calice” della passione, ma poi lo ha bevuto. Si riferiva a una profezia più volte ripresa nel Primo Testamento (Sal 74,9; Is 51,17.22; Ger 49,12; Lam 4,21; Na 3,11; Ab 2,16) che parla dello sdegno (ira) di Dio per il male compiuto dagli uomini e delle sue amare conseguenze, paragonate a un calice di una bevanda forte e cattiva, che fa star male chi la beve.
Gesù ha bevuto questo calice nel senso che lui, anche se innocente, ha sofferto le conseguenze del peccato: è stato trattato da peccatore e non si è opposto alla condanna; ha amato anche chi lo odiava fino a lasciarsi uccidere; si è consegnato alla ferocia degli uomini, perdonandoli.
Quando i cristiani fanno la comunione, anche se purtroppo soltanto sotto la specie del pane, essi bevono il calice del Signore insieme a lui. Questo gesto significa prima di tutto che vogliamo nutrire la nostra vita, darle sostanza con quel che il Signore ha fatto per noi, ma vuol anche dire che lo vogliamo imitare, dare la nostra vita, metterla a disposizione, a servizio degli altri, come lui.
Bere al calice del Signore significa il desiderio di partecipare insieme a lui all’opera della salvezza del mondo, vivendo la propria vita come servizio.
Gesù vuole che la sua Chiesa sia libera dalla mentalità mondana della ricerca del potere, degli onori, dei privilegi, ma non c’è modo di cancellare queste cose se non con la conversione: ognuno deve vigilare su se stesso e attingere dal proprio battesimo e dalla celebrazione della eucaristia le motivazioni, il desiderio e la forza di servire.


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