Uno degli aspetti principali del messaggio di Gesù riguarda l’interiorità. Certamente non l’ha inventata lui, ma la religione del suo tempo e probabilmente tutte le religioni, compresa la nostra, rischiano sempre di scadere e diventare un codice di comportamento esterno, una serie di regole da adempiere per sentirsi in qualche modo “a posto”. Forse molte persone, specialmente giovani, rifiutano la religione proprio perché la identificano con questa sua brutta copia, questa caricatura decadente. A tal proposito ci sono però molte cose da dire: provo ad accennarne almeno alcune.
Prima di tutto, ‘interiorità’ non significa intimismo: Gesù elenca dodici “veleni”, sei al plurale (comportamenti) e sei al singolare (atteggiamenti) che partono dall’interno ma si manifestano all’esterno. Aver cura della propria interiorità non significa ritirarsi in una torre d’avorio a guardarsi l’ombelico. Significa comprendere meglio se stessi e da dove nascono le nostre scelte e le nostre azioni (o non azioni): desideri, timori, esperienze, ferite, ideali… radici buone o cattive dalle quali nasce ogni nostro comportamento e atteggiamento.
Aver cura della propria interiorità è un lavoro lungo e paziente: molto lungo e molto paziente. Ci sono persone, specialmente giovani, che credono sia sufficiente abbandonare le regole esterne e affidarsi alla spontaneità per essere persone buone. Il tempo e la vita si incaricano di demolire questa illusione: la nostra spontaneità non è sempre buona. Ho sempre cercato di ricordare a tutti, soprattutto ai giovani, che autenticità e spontaneità non coincidono: un amico spontaneo ti può anche dare un pugno, se gli viene; un amico autentico, anche se gli viene spontaneo darti un pugno, si trattiene. Spontanei si nasce, autentici si diventa.
Oggi la maggior parte delle persone si cura poco della propria interiorità o perché crede di essere già a posto o perché ha altro da fare, ma quel che facciamo nella nostra vita parte sempre da “dentro”, da quel che siamo, desideriamo e temiamo. Solo un cuore davvero guarito e riconciliato può generare una vita buona.
È vero che le regole religiose non bastano a fare di noi delle persone buone, ma ovviamente neppure l’abbandono di queste regole ci rende migliori: essere persone sincere, oneste, buone e caritatevoli è ciò che conta, ma la religione non si oppone a queste virtù, anzi le incoraggia e aiuta a praticarle. Esistono e sono sempre esistite, anche ai tempi di Gesù e anche prima, persone ipocrite che ostentano una certa religiosità mentre invece si comportano molto male, ma il puro e semplice abbandono della religione non ci garantisce di diventare migliori: per raggiungere questo scopo è necessario vigilare su se stessi e prendersi cura di quel guazzabuglio che è il nostro cuore, il nostro mondo interiore.
Ai tempi di Gesù alcuni credevano di purificarsi lavandosi le mani e in seguito qualcuno, fino a oggi, ha creduto di purificarsi solo partecipando a dei riti. Ma un cuore puro, secondo la Bibbia, è un cuore nel quale l’amore di Dio e del prossimo non è mescolato con il male, con l’egoismo, un po’ come un vino puro è quello che non è mescolato con acqua o altre sostanze. Come si può giungere ad avere un cuore davvero puro? Non c’è un metodo, o per meglio dire, nel corso dei secoli la sapienza umana e le religioni hanno elaborato tanti metodi per conoscersi meglio e per migliorarsi: sono tutti buoni e degni di rispetto, ma solo l’ascolto del Maestro interiore, lo Spirito Santo, ci può guidare alla pienezza della vita che è l’unione con Dio.
Meditazione 22^ domenica del tempo ordinario 01/09/2024
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