In questa solennità di Cristo Re dell’universo, ultima domenica dell’anno liturgico, leggiamo la terza e ultima parabola del capitolo 25 del Vangelo secondo Matteo: la parabola del giudizio universale.
Mi ricordo di una signora che ho conosciuto, morta diversi anni fa, che non riusciva ad accettare l’idea del giudizio di Dio perché, se ho capito bene, lo sentiva come un qualcosa di estraneo, mentre le riusciva più facile accettare l’idea che ciascuno potesse arrivare a un giusto giudizio sulla propria vita. D’altra parte, era una psicologa rogersiana e con tutte le persone, non solo con i suoi clienti, si metteva in relazione con un atteggiamento di accettazione incondizionata, di non giudizio, aiutandoli semmai a formulare essi stessi una valutazione delle proprie azioni.
Questa sua obiezione mi è rimasta dentro e forse mi aiuta a capire un po’ meglio il giudizio di Dio.
Che alla fine ci sarà un giudizio di Dio è affermato in tutta la Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, ed è un’esigenza insopprimibile dell’umanità di fronte a tutte le ingiustizie di questo mondo: ci dovrà essere alla fine una parola che renda giustizia a tutte le vittime e dica cosa è giusto e cosa non lo è stato. D’altra parte, però, non si può pensare che giusti e ingiusti siano due categorie di persone distinte e separate: il confine tra giusto e ingiusto di solito passa dentro di noi, non fuori.
Ci viene incontro allora, insieme alla prima lettura, proprio la parabola di oggi: Gesù si attribuisce in essa il titolo di Re e di Figlio dell’uomo (che nel Libro di Daniele significa proprio “re universale”) ma anche il titolo di pastore. Nella prima lettura Dio stesso si definisce pastore e descrive così la sua azione: «Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia.
Ecco, io giudicherò fra pecora e pecora, fra montoni e capri» (Ez 34,16-17). Prima di esercitare il giudizio, il Signore esercita la cura, si prende cura di ciascuno di noi in molti modi e uno di questi, forse il principale, è aiutarci a capire cosa ha valore e cosa non ne ha, cosa è giusto e cosa non lo è. Anche la parabola di questa solennità dobbiamo considerarla come un gesto di cura nei nostri confronti: il giudizio sulla nostra vita non sarà un esame a sorpresa, ma fin da ora il Signore cerca di aprire i nostri occhi alla sua verità che è la compassione e la misericordia. Noi crediamo di saper distinguere il bene dal male e in effetti fino a un certo punto ci riusciamo, ma solo fino a un certo punto, perché la maggior parte dei nostri peccati, delle nostre contraddizioni all’amore fraterno non è originata da odio o altre tendenze cattive, ma si tratta più spesso di azioni mancate per indifferenza.
C’è un salmo che dice: “Beato chi discerne il povero e il misero” (Sal 41,2): il vero discernimento, quello più importante è proprio saper vedere nell’altro e nelle sue necessità l’appello alla nostra conversione, la presenza del Signore che ci illumina su ciò che ha valore ai suoi occhi.
La parabola che abbiamo ascoltato è appunto una parabola, un modo di esprimersi che ci invita a pensare e ad agire diversamente da come siamo abituati. Il giudizio di Dio non avverrà solo alla fine dei tempi, ma si compie anche adesso: il Signore si prende cura di noi e ci aiuta a capire e desiderare ciò che è bene, ciò che è importante, ciò che ha valore.
Meditazione Cristo Re 26/11/2023
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